Applausi silenziosi
Un nuovo format di improvvisazione teatrale che non fa ridere ma fa riflettere
Vi è mai capitato di dire una cosa che non pensavate, o che pensavate solo parzialmente, con l’unico fine di captare l’approvazione della vostra platea? Ecco, se vi è capitato non siete soli. Le ragioni che spingono a compiere un tale gesto sono da cercare nella soddisfazione emozionale che speriamo di ricevere sotto forma di approvazione sociale. Il fenomeno, teorizzato alla fine del ventesimo secolo, è chiamato sandrocurzismo ( /san·dro·kur·tsi·smo/ sostantivo maschile). Questa la definizione che si trova online:
Essere esattamente come Sandro Curzi
Fare della retorica insopportabile
Dire un cosa che uno non pensa e dirla soltanto per ottenere un applauso
Es. “Un calciatore produce un’emozione identica a quella di un quadro e nessuno si stupisce che Picasso sia miliardario. I poliziotti possono essere pagati di più ma è inutile tirar fuori i poliziotti, altrimenti io tiro fuori che Picasso era uno stronzo, Raffaello era una merda e i poveri soldati sono degli eroi. Che c'entra? Tu hai preso un sacco di soldi con i film, non rompere i coglioni con 'sti discorsi inutili!”
Una volta definito il fenomeno si era riusciti a chiamare per nome quella cosa che si verificava oramai in quasi tutte le conversazioni: inquinare il dibattito con la retorica al solo fine di ricevere degli applausi, reali o immaginari, e posizionarsi ideologicamente.
La ricerca di una soluzione all’annoso problema partì da un collettivo di giovani organizzatori di eventi fiorentini. Quando gli strumenti incontrano le idee nasce l’innovazione, e l’innovazione culturale avvenne quando gli strumenti, i teatri vuoti tenuti in piedi sprecando i soldi dei contribuenti in nome della Cultura® e l’active noise control, vennero uniti all’idea, far confrontare le persone davanti a un pubblico di cui non erano in grado di sentire la risposta emotiva e pertanto farsi influenzare.
Fu così che la compagnia di teatro per la pubblica utilità La Bestia Muta, nome scelto in onore del pioniere dei diritti LGBTQI+ e dell’esplorazione psichedelica Luca Morisi, iniziò a riempire le sale teatrali di dibattiti sani e costruttivi, arricchiti da un pubblico vivace e vocale, ma in penombra, e quindi invisibile agli occhi e muto alle orecchie tappate dai provvidenziali auricolari.
Questo uno stralcio dell’ultimo confronto al quale ho assistito dal vivo intitolato “Patologizzazione dei comportamenti individuali, un confronto tra la necessità di trovare soluzioni e di non creare nuovi problemi“. Sul palco dibattevano un* femminista intersezionale con un po’ di ricrescita sul mento e il presidente dei GHEI (Glory-Hole Enthusiasts for Integration).
“Sostengo che nella definizione di femminicidio, se vogliamo analizzare il fenomeno con l’intenzione di risolverlo, non si possa prescindere dall’individuare dei parametri univoci che permettano di raccogliere un campione affidabile su cui fare inferenza statistica”. Diceva un* dei due mentre la platea già mormorava. Echi di “ma che dici?“ e “troglodita“ riempivano l’aria del teatro. “Il femminicidio è qualunque atto infligga un danno corporeo ad una vittima donna e perpetrato affermando logiche patriarcali” replicava l’altr*. “ Per cui tu faresti rientrare nel calcolo dei femminicidi anche eventuali atti compiuti da donne, se riconducibili a dinamiche patriarcali?”. “Tutti gli atti che vanno a rinforzare le logiche patriarcali appartengono alla stessa sfera e innescano i comportamenti che poi tracimano nei casi più gravi, quindi sì”. La platea si stava animando. Pareva chiaro che avessero già individuato il loro beniamino. “Se ogni uomo deve assumersi le responsabilità dei comportamenti patriarcali che applica o propizia si smette di fare distinzione tra le diverse entità del danno. Un uomo che fa un complimento estetico ad una collega, riducendone quindi i meriti professionali in favore di quelli estetici, viene equiparato a qualcuno che limita l’autonomia di una donna con soprusi psicologici e verbali?”, “Ti chiedo di chiarire il concetto”. “Un datore di lavoro che fa il simpatico con la propria dipendente ha lo stesso impatto di una madre che proibisce alla figlia di uscire vestita in un certo modo o la ricatta emotivamente per il suo stile di vita?”. Il pubblico divenne ancor più vocale mescolando ai “buuuuu“ aggettivi come “stronz* misogin*“ e “qualunquista“. “Lì dipende”. “E se anche negli altri casi dipendesse? Se purtroppo non fossero episodi così facilmente ascrivibili allo stesso fenomeno e forse proprio per questo più difficili da attaccare oltre che soltanto raccogliere e analizzare statisticamente? Se si trattasse ogni volta di un caso specifico e la ricerca di un trend fosse un dannoso e controproducente tentativo di applicare chiavi di lettura insufficienti, specialmente nella gestione dei casi dal punto di vista giuridico?”. “Può essere, allora cosa suggerisci di fare: ignorare il problema?”. Il pubblico sembrava convinto, perlomeno uno di loro, quello che urlava “Brav*, diglielo a ‘st* stronz*****“. “No, suggerisco di non gettarci a capofitto in una soluzione avventata influenzata in larga parte dall’emotività, che temo si risolva nella sottoscrizione di leggi più severe ma di difficile applicazione, nel peggiore dei casi utilizzate per dare punizioni esemplari ai casi di maggior clamore mediatico e nel migliore dei casi mai utilizzate”. Timidamente dal fondo della sala qualcuno disse “comunque è vero che ogni volta che c’è un caso mediatico l’indignazione non dura più di due settimane e non si arriva mai a una soluzione”. Qualcuno lo ignorò, qualcuno lo guardò come a dire “in effetti è così“. “Purtroppo io però temo che ogni momento di inazione si traduca in un potenziale aumento di vittime. E per quanto possa accettare le responsabilità individuali all’interno di un ambiente non posso ignorare l’influenza dell’ambiente sugli individui”. “Hai completamente ragione, e per questo ti chiedo se siamo già al punto in cui abbiamo gli strumenti per definire in modo univoco e chiaro gli attributi di questo ambiente?”. “No, ma possiamo iniziare a lavorarci, perlomeno io sento questa responsabilità e urgenza, accettando di commettere qualche errore e correggerlo strada facendo”. “Sono d’accordo in teoria, meno in pratica, ma faccio il tifo per te”.
Alla fine del confronto non avevo comunque la sensazione che si fosse trovata una soluzione ma perlomeno due opinioni discordanti si erano confrontate civilmente, e se anche non avevo speranze particolari sulla risoluzione del tema dibattuto avevo speranze che si potesse dibattere. Grazie Luca Morisi per il cambiamento che hai innescato. #change