Non prendetemi in giro. Ho passato un’intera giornata a scattare foto senza togliere il copriobiettivo alla macchina fotografica.
Sabato pomeriggio ero al CCTP. Per chi avesse vissuto in una caverna durante gli ultimi anni, il CCTP è l’evento che ha finalmente svecchiato l’immagine di Firenze. Il nome, per esteso “Chi Cazzo Ti Pride”, sintetizza perfettamente lo scopo della manifestazione: esibirsi per quello che si sente veramente di essere, in un contesto dove le uniche persone ad essere giudicate sono quelle che giudicano.
Data l’inspiegabile decisione dell’amministrazione comunale fiorentina di negare il proprio sostegno al Gay Pride negli anni passati, le associazioni LGBTQ+ si sono naturalmente e organicamente aggregate a un evento simile, rafforzando l’anima multi-identitaria della manifestazione. Oltre a loro, hanno partecipato associazioni vicine a gruppi sociali storicamente ai margini del riconoscimento, ma che oggi sono integrate nel tessuto sociale di una città cosmopolita come Firenze. Nonostante questo, la parte più grossa del corteo era composta da chi, negli ultimi trenta anni, si è sentito costretto ad allontanarsi dalla città per motivi di lavoro, studio, affetti o, più comunemente, per quella sensazione di noia e stantio che caratterizzava l’ambiente lavorativo e sociale della città. È stato bello vedere manifestare persone adulte con tatuaggi, treccine, piercing, tonalità della pelle più scure e occhi più affilati di quello che eravamo abituati a vedere fino a un decennio fa.
Quasi subito, al corteo si è unito un gruppo di nudisti. Erano i rappresentanti della club culture fetish e delle aree naturiste della Toscana. Persone che avevano frequentato i luoghi più disinibiti, socialmente e sessualmente, di Berlino, Londra e Barcellona ed erano tornate a Firenze portando con loro il bagaglio di accettazione di sé e serenità col proprio corpo acquisito all’estero. All’interno di quel gruppo la mia attenzione è stata attirata da una ragazza piuttosto bassa. Anfibi neri lucidi, dei piercing sul volto e nient’altro addosso. Mi avvicino e chiedo se posso scattarle una foto. Lei risponde chiedendomi se sia proprio necessario. Io dico che non lo è e lei mi ringrazia. Poi, forse sentendosi inspiegabilmente in colpa, mi confessa che non ritiene che ci sia nulla di eccezionale nella sua nudità. Io rispondo che non c’è bisogno di essere eccezionali per essere interessanti e lei sorride. A quel punto le chiedo nuovamente se posso fotografarla. Lei, sorridendo, mi dice di no.
Alla guida del corteo c’era un risciò pedalato da una persona senza maglietta e i capelli biondi ossigenati. Un carrello era attaccato al risciò. Sul carrello un impianto audio che blastava della techno soft nell’aria. Sulle note di Populous e le vocalizzazioni di M¥SS KETA il fronte del corteo ballava agitando le mani e le teste: erano gli straight edge. Uno di loro, indicando con un cenno dei poliziotti in divisa al lato della strada che si muovevano a tempo, mi fa: “Hanno capito che non creiamo problemi. Ce ne hanno messo di tempo ma ci sono arrivati”. E io: “Come lo hanno capito?”. E lui: “Hanno chiesto e noi glielo abbiamo spiegato”. A quanto pare bastava.
Dopo aver salutato il mio nuovo amico mi volto alla ricerca di facce conosciute. Faccio appena in tempo e vengo accerchiato da una folla di persone colorate che si muovevano su pattini a quattro ruote: erano i jam skater. Molleggiatissimi, sulle loro groovy rotelle, mi danzano intorno. Con un sorriso beato resto fermo mentre vengo inglobato da un’altra folla: i poser. Eh già, ci sono anche loro a questa manifestazione. Quando la città si è scoperta inclusiva lo ha fatto con tutti, e quindi anche i poser sono diventati un gruppo accettato e integrato nel tessuto sociale. Ragazze e ragazzi con la kefiah manifestavano a braccetto con persone che indossavano camicie Ralph Lauren, poi grandi effusioni con trapper e con i normcore. Più defilati, ma comunque presenti, uno dei gruppi ancora trattato con un po’ di diffidenza, quelli con il cappellino con la visiera e le Airpods.
Circondato da quelle persone che fino a pochi anni fa sarebbero dovute scappare dalla città per essere loro stesse trascorro uno splendido pomeriggio. Uno di quegli eventi annuali che rinfranca e dà la carica per sopportare per i successivi dodici mesi tutte le frustrazioni che affliggono un cittadino, ma la vita di città è fatta così e un cittadino a modo lo sa, senza rassegnazioni.
A questo punto non poteva mancare un selfie. Bè, se non fosse stato per il copriobiettivo che si è messo di mezzo mi avreste visto per ciò che mi sento veramente. E se vi siete anche chiesti perché andassi in giro con una macchina fotografica quando la stessa funzione poteva essere soddisfatta dall’oggetto che tutti noi indossiamo al polso state per avere una risposta. Ai piedi avevo dei sandali birkenstock rovinati, dei pantaloncini di cotone, una camicia di lino presa in India e un’abbronzatura presa in barca (a vela). Nella mano sinistra stringevo per tutto il tempo un libro, un adelphi, “Come ordinare una biblioteca” di Calasso. Sì, mamma e papà, vostro figlio è un radical chic.